THE ARTIFACT LABYRINTH



sino a settembre la galleria Studio La Città ospita la mostra THE ARTIFACT LABYRINTH (unfixed histories and the language of transformation) curata dall’artista americano Jacob Hashimoto che, per l’occasione, ha coinvolto quattro colleghi d’oltreoceano: Dave Hardy, Dave Kennedy, Elizabeth Moran e Abbey Williams, in un confronto concettuale e visivo tra i loro eterogenei lavori scultorei, installativi e video. Alla base del dialogo tra le opere in mostra c’è il concetto di “processo”, inteso come il procedimento creativo messo in pratica dai quattro artisti e declinato in maniera diversa a seconda delle tematiche che essi hanno scelto di veicolare con i loro lavori. Il processo scelto da ognuno é dunque il più efficace per far riflettere, per lanciare una provocazione, per cercare di interpretare i cambiamenti destabilizzanti dell’era contemporanea: argomenti spesso trattati dagli artisti a partire dalle loro storie personali. Nel caso di Elizabeth Moran (1984, Houston), il concetto di processo è quello giornalistico relativo alla pratica del fact-checking, inventata dal TIME nel 1923. Le prime fact-checker tutte donne crearono processi di controllo e ricerca tuttora utilizzati da rinomate agenzie stampa, per verificare l’attendibilità delle informazioni. Oggi, a questa pratica, si è aggiunta la traduzione giornalistica, considerata la nuova importante area di ricerca in una società globalizzata e multietnica, al fine di trasmettere la versione più vera della storia. In mostra, Elisabeth Moran propone un’installazione composta da una selezione di pagine d’epoca: tutte inserzioni pubblicitarie con chiaro riferimento ai miti della letteratura (Omero, Shakespeare, ecc.), utilizzati per attirare l’attenzione dei possibili nuovi abbonati. Le pagine, tratte da diversi numeri del TIME, saranno esposte con la relativa traduzione italiana, parte integrante del lavoro sulla complessità della trasposizione.
 
In Dave Hardy invece, il processo creativo è quello tipico dell’assemblage. Nei suoi lavori scultorei, ultimati durante la sua permanenza a Verona, i materiali di scarto (vecchi mobili, cemento, schiuma espansa, vetro, ecc.), si stagliano nello spazio come fantasmi della nostra epoca che sfidano la gravità: detriti del capitalismo in bilico sull’orlo del collasso. L’artista indaga come le diverse circostanze in un processo, possano cambiarne il risultato, come tensione e opposizione possano in realtà legare le cose assieme e non dividerle. Qui infatti pieni e vuoti, elementi pesanti, leggeri e trasparenti, spingono uno contro l’altro e i lavori sembrano galleggiare toccando a malapena terra, sopravvivono rimanendo in piedi proprio grazie alle loro opposizioni. Le strutture di Dave Kennedy invece, indagano l’idea di anamorfosi, antica tecnica di rappresentazione che consiste nel deformare l’immagine di un oggetto in modo che esso, guardato da una certa angolazione, risulti completamente diverso da sé stesso. Nelle sue opere ricorre una sorta di analisi dell’evoluzione visiva che spesso rende l’estetica anti-estetica, manifestando con chiarezza che le cose non sono quello che appaiono e l’identità è spesso instabile e inaffidabile. All’interno della mostra, anche un’opera video di Abbey Williams, che analizza il procedimento di montaggio tipico dei video musicali ed è realizzata come la campionatura di una canzone, mixando assieme vecchi filmati a bassa risoluzione, realizzati originariamente a 2 o 3 canali, prima dell’epoca di internet. Tutta l’opera è incentrata sul tema della perdita, declinata nelle sue molteplici forme in ciascuno dei video in sequenza: la perdita di un figlio, il desiderio come perdita (il non avere mai avuto), la perdita delle proprie origini etniche e culturali.
 
>> INGRESSO LIBERO; la galleria è aperta da martedì a sabato. orario 09.00/13.00 e 15.00/19.00
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